La poesia di Biagio Cepollaro

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luna persciente (testo integrale)

                         LUNA  PERSCIENTE

                                                           (1989-1992)

                                                                   carlo mancosu editore

INDICE

Prefazione di Guido Guglielmi

Le orbite

I Multitudo

(Della mancata esplosione)

(Dell'ansia e dello Scriba)

(Delle parole al paragone)

(La girandola degli Annaspanti)

(Della filmica natura)

(Della nuova ordinanza)

(Scriba uscito dal bar)

(Licina e gli uomini)

(Delle assegnazioni sul ponte)

(Clelia sulla soglia di casa)

(Della deportazione)

(Selino al bar)

II Natura

(Dei satelliti e dei crani)

(Del mondo in casa)

(Dello zero e della fine)

(Del primo secondo)

(Della materia vivente)

(Della pellicola del paesaggio)

III Sententia

(Dell'opera-frame)

(Scriba traslato)

Luna persciente

Note

                                                                                                                a Francesca

                                                                                                               a Bianca

 E io, ch'ognora atendo

di saper veritate

de le cose trovate,

pregai per cortesia

che sostasser la via

per dirmi il convenente

de luogo e de la gente

Brunetto Latini

Nota:

                   Luna persciente fa parte della trilogia dal titolo ‘De requie et natura’, di cui il

il primo libro è Scribeide (1985-1989),P:Manni ed.,1993.

Le orbite è apparso in Le voci della poesia, Elytra ed.,1992

La chiusa eponima ‘Luna persciente’ è compresa in Gruppo93, Le tendenze attuali della poesia e della narrativa,P.Manni ed.,1993.

Prefazione di Guido Guglielmi

Perché si scrivono poesie? Si può pensare che ci siano cose da dire che non possono essere dette se non in forma poetica. E naturalmente la forma poetica che qui intendiamo sta a un diverso livello rispetto alla distinzione (di genere) di poesia e prosa. Ma può accadere –ed è accaduto storicamente- che le cose da dire –i cosiddetti contenuti- diventino estranei e remoti, che non resistano all’azione storica. Non c’è più allora alcun cammino che conduca ad esse. Non ci sono più contenuti articolabili. Ciò accade quando i topoi che formano la poesia e la letteratura hanno perso ogni individualità, ogni appartenenza a una cultura, e quindi non li si può più usare. E questa è probabilmente la condizione nostra, e cioè di un tempo che dispone del thesaurus delle forme e dei topoi, che ha classificato e ordinato in schede il proprio sapere letterario, ma insieme lo ha depotenziato e appiattito. Stiamo appunto parlando della condizione postmoderna, il cui contrassegno maggiore è dato proprio dalla sovrapposizione e contaminazione di tutte le culture, della mescolanza degli stili, ognuno dei quali si offre in una dimensione detemporalizzata. Il postmoderno è soprattutto una poetica di riuso dei segni. Gli stili strappati dai loro contesti si rianimano secondo le convenienze dell’attualità. La ricezione effimera diventa il loro nuovo fondamento. Tanto che c’è stato chi ha sostenuto che tutte le opere sono produzione lettori; che le opere si risolvono nella puntualità della fruizione (degli atti di lettura). Davanti al processo di invecchiamento che ha colto la letteratura e la poesia, l’esperienza estetica ha finito per ritirarsi nelle sensazioni che i lettori ricavano dalle opere. Ed è quindi tornato di moda il linguaggio dei sentimenti, delle emozioni, degli stati vissuti (degli Erlebnisse), quasi che il testo fosse in primo luogo un fatto di consumo. O magari una tabula rasa sulla quale inscrivere le nostre proiezioni. Dello spessore storico dei testi –e dello spessore storico dell’uomo- resta invece ben poco. E infatti è stata teorizzata una priorità dell’aisthesis sulla poiesis, e ciò proprio in mancanza di quella tradizione che potrebbe fondarla (e rispetto alla quale la distinzione di aisthesis e  poiesis  diventerebbe quanto meno secondaria).

  Ma alla domanda sul perché della poesia, si può rispondere, ed è stato risposto, che la poesia non ha alcun senso da proporre: ciò che poeticamente importa è un modo di fare; non la cosa da dire, ma il come dirla. E’ questo il coté formalistico, intenzionalmente anticontenutistico, della letteratura. Ma se consideriamo le teorie del formalismo letterario( quelle che prenderanno il nome di strutturalismo) ci accorgiamo che il loro anticontenutismo era poi un’opera di distruzione dei significati. Le posizioni formalistiche prendevano atto del fatto che ogni riproposta di significati, ogni teoria e pratica di una lingua della poesia, in realtà si rifiutava di riconoscere che una lingua della poesia non c’è più ( a questo misconoscimento Freud dava il nome di Verleugnung), e perciò costruiva dei feticci, delle poesie-feticcio. Di fatto il formalismo, che –conviene dire- prima che un metodo e che una disciplina scientifica è stato una grande poetica, ha applicato un modo parodico a tutta la letteratura. La sottolineatura dei nessi formali, il cosiddetto straniamento, mirava a destituire la letteratura, a farne una pratica critica nella dinamica dei linguaggi, a sottrarla a ogni positività. Mentre la letteratura perdeva il suo tradizionale statuto, un’ideologia letteraria tendeva a relegarla in un ambito specifico (l’estetica), a farne un’attività –ideale o spirituale- al di sopra di ogni uso o funzione, o deputata a conciliare, o a occultare, lacerazioni reali e storiche. Ed ecco allora che il compito della letteratura d’avanguardia diventò quello di umiliare se stessa, di scoprire al proprio interno le tensioni, i conflitti, l’incompiutezza. E proprio attraverso la parodia, l’esposizione arguta delle proprie forme, il mostrare che ogni a priori (l’uomo, lo spirito,i valori) è vuoto e che ogni senso è prodotto di un’operazione, la poetica si faceva oppositiva, e si alleava con una politica. La parodia si dimostrò sia un mezzo di demistificare la letteratura, sia un mezzo di salvarla, di renderla attiva e storicamente vitale. Essa poteva esercitarsi sul già fatto, sugli effetti di senso riconosciuti e naturalizzati, e nello stesso tempo aprirsi all’esperimento, all’avventura, all’esplorazione di mondi non intenzionali, agli orizzonti e alle latenze del linguaggio.

  L’ultima generazione di poeti, e tra questi Biagio Cepollaro, venuta dopo le esperienze della neoavanguardia degli anni’60,si è trovata davanti a una situazione più difficile e tuttavia a suo modo stimolante, se è vero che sono proprio le difficoltà che si incontrano a esigere le invenzioni meno prevedibili. Ogni operazione critica sembrava essere riassorbita nell’istituzionalità del linguaggio poetico. La pratica di distruzione dei significati appena riconosciuta, era subito come cambiata di segno. Il gusto dei rovesciamenti, le contraffazioni, i travestimenti erano diventati macchine retoriche. Gli asintattismi, le tecniche dell’incongruo e dell’eterogeneo erano diventati maniere. E appunto Cepollaro ha cominciato col dichiarare (lo ha ricordato opportunamente Luperini) che il suo problema oramai non era più ‘cosa’ dire e nemmeno ‘come’ dire, ma ‘con che cosa dire’. Il problema di Cepollaro non è infatti un problema di contenuti, divenuti sempre più banali quanto più si vogliono carichi di responsabilità, e neppure un problema di forme, dato che lo stesso ‘grado zero’ della scrittura –o dell’ideologia letteraria- è divenuto l’indice più certo della scrittura. le forme, in altre parole, sono subito percepite come fatto di connotazione. Quella che si chiama funzione poetica neutralizza la funzione critica e produttiva. (E’ il caso del Kitsch). Cepollaro si è quindi chiesto quali potevano essere oggi i materiali della poesia. E si è rivolto alle più diverse fonti: ai testi illustri, ai dialetti (oramai testimoni di culture in via di sparizione), alle lingue dell’attualità mediale e multimediale. I suoi sono spezzoni di linguaggio, parole orfane. Una massa di frammenti è convocata sulla pagina, non tanto a mimare una impossibilità di comunicazione, quanto a creare ostacoli a ogni possibilità di comunicazione. Nella Luna persciente, proseguendo il lavoro di Scribeide (i due poemetti appartengono a una stessa fase sperimentale), Cepollaro in verità irrigidisce un suo atteggiamento di rifiuto. Egli compone i suoi testi in ampi periodi ritmici ben misurati, secondo lunghe sequenze poematiche, contraffà rigore e metodo, ma ciò che racchiude nei suoi cerimoniali verbali non è il vuoto, ma un gesto ostile. Se sollecita il lettore (e a questo servono i cerimoniali verbali), non è per cercare una complicità, ma per porlo davanti a una provocazione, a un idioletto non dialettizzabile. Potremmo quindi considerare questi testi di Cepollaro come dei modi di interrogare il linguaggio al di fuori delle vie convenzionali ed accertate, e cioè come dei modi di fare precipitare le possibilità del linguaggio dall’orizzonte delle sue impossibilità. Come dei prolegomeni, in sostanza, per una poesia futura (laddove è solo il presente che sembra oggi trovare ascolto).

                                                                                                      Guido Guglielmi

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