La poesia di Biagio Cepollaro

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e dovremmo noi ricordarci ora                   

e domani

che non fummo magnanimi

col tempo

che non solo perdemmo

-non pensandoci- le albe

viste dall’aereo

sul pacifico (e lo notava

contrito via e-mail Taro Okamoto

tornando a casa)

ma anche perdemmo -indurendo troppo

spesso la faccia-

l’occasione per sentirci agli altri

uguali

 

è vero ci premeva ansia

di non farcela ogni mattina

allo specchio

aggiustandoci i capelli ancora

arruffati dal sonno

dovevamo presto darci contegno

ripeterci come mantra

all’incontrario

di esser abbastanza forti

per non soccombere

e portare a casa parte

che sembrava giusta

(a torto o a ragione)

di tutto il becchime

 

 

e dovremmo ricordarci ora

e domani

di chi più vecchio ci accolse

e ci dette ascolto

mentre noi già pensavamo

di essere strumenti troppo

docili

 

 

e  per troppo tempo dialogammo

solo con noi stessi credendo

ragioni

due o tre ossessioni

 

(quelli che per strada

parlano da soli

per protesi e auricolari

fanno ad alta voce

ciò che comunque faremmo

per impulso della mente)

 

                

                   mente satura ed esplosiva

stanza che scoppia

                      e che nessun trasloco

potrà prosciugare

                         che resta palude e pantano

che resta fetida

                        nella mente

l’aria

 

 

diremo. A noi ci parve

 di scegliere e decidere

ma fu lo stato

della nostra mente

                                  e le sue macchie

a vedere o a non vedere

 

noi dicemmo esiste solo purezza

della mente

che ancora così chiamiamo  mistero

di queste galassie che procedono lente

                                                         a fare spazio

                      inventando                      cosa

                                       nel niente

 inventando insieme                  cosa  e niente

 

 


 

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***

 

e ogni giorno

nuovo è come terrazzo

della festa il giorno

dopo. forse da questo

lasciare andare ciò

che comunque è andato

senza rincorrere voci

che non ci sono più

senza tristezza per piatti

di carta accartocciati

e per le cicche

con la stessa nube

che illumina gli occhi

 

 

anche noi partecipammo a sociale                 

rimozione

del dolore e della tenerezza

a noi che in antico fu affidata

memoria

fummo i primi per due righe

di giornale

a dimenticare

 

che non si trattava di affermare

questa o quella verità

ma di essere nel giorno

diversi

e invece al semaforo

suonammo più volte

il clacson

appena verde

 

e in casa fummo gelosi

degli spazi facemmo notte

e giorno ronda

intorno a nostro accampamento

a difendere tempi

e oggetti

che altrimenti avremmo dimenticato

 

(come solo ci riuscì in quei mezzi

abbandoni quasi umani

che nominammo ignari

vacanze)

 

                  e fummo sordi ai più vicini

e fummo ciechi all’evidenza

 

                   e mille facce ci passarono davanti

che non vedemmo

 

mille voci ci cercarono

che non ascoltammo

 

e ora tutte quelle facce e tutte quelle voci

fanno ressa davanti ai cancelli

della mente

e ora che siamo usciti

di casa lasciandola al disordine

esitanti facciamo il nostro bagno

di folla nella folla dei visi

e delle voci

 

                      la terra comincia dalle nostre case

            il cielo comincia dai nostri occhi

 

e francesco via e-mail mi dice

che azione crea spazio

e penso alla danza che lo ricama

e penso a dimenticare i nomi

ai fogli bianchi sempre nuovi

e ai visi e alle voci fuori dalla stanza

 

                       e all’aria e al tempo che rimane

 

 

che il tempo che resta

non aggiunge più nulla

 

che questo tempo ci farà

muovere sul posto

 

che abbiamo fatto cose

nell’ignoranza

e ora queste cose

ci fanno sorridere

 

o vergognare  ché queste

cose non sono più cose

 

ma movimenti alla cieca

e colorati accecamenti

   

 

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