La poesia di Biagio Cepollaro

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Postfazione di Giuliano Mesa

 

Nel camminare accanto. Piccola fabrica per Biagio Cepollaro          

 

1. Un libro di transizione e di crisi, scritto fra il 1993 e il 1997, che Cepollaro pubblica quando la crisi, la frattura, è diventata ormai accoglimento, non più rifiuto, del passato, e quando la transizione si è già spostata, di un lustro ancora, oltre i Versi nuovi[1]. Escludendo la sezione prima, Come un prologo, datata 1989-1991, che ha funzione di cerniera rispetto alle prime due ante del trittico De Requie et Natura (Scribeide, 1985-1989; Luna persciente, 1989-1992), questa Fabrica comincia nell’anno in cui la vicenda del Gruppo 93 si conclude. Ne dice, nel suo “ringraziamento”, Cepollaro stesso, accennando anche al “tracimare polemico” che proseguirà fino alla chiusura, nel 1997, della rivista “Baldus”. Se ne potrebbe dire, qui, con la memoria del “compagno di strada”, di chi osservava, e discuteva, camminando accanto. Meglio rimanere accanto alle poesie, alle domande che ponevano e che ancora pongono.

2. Il titolo della trilogia, nella sua non celata ambizione, ne espone sùbito un carattere fondamentale: la volontà, ostinatamente perseguita, di “non venire a patti”. Nel 1985, a un anno dall’esordio (Le parole di Eliodora), Cepollaro recide ogni legame con le convenzioni naturalistiche: lo spontaneismo che vanta  l’immediatezza comunicativa del parlato, i culti della sorgività o della mitopoiesi che vorrebbero naturali i loro idioletti iperletterari, realismi e narratività intenti a “chiamare le cose col loro nome”, pulsioni desideranti e decentramenti dell’io dove il linguaggio poetico è sintomo o protesi d’inconscio - convenzioni generalmente veicolate da un verso libero destoricizzato, naturalizzato anch’esso. All’artificialità e storicità non riconosciuta, o inconsapevole, si opponeva, o giustapponeva, l’utilizzo di forme chiuse premoderne; ad arginare, anche, la dilagante indifferenza della forma rispetto al contenuto, che era, spesso, negazione irenica della criticità che ogni scelta di linguaggio comporta. Così, e non è un lieve paradosso, poeti ostili all’avanguardia privilegiavano uno strumento, il verso libero, nato avanguardista, e poeti di postavanguardia, o “sperimentali”, privilegiavano forme di tradizione e ridavano lustro, pur se critico e metacritico, a endecasillabi e settenari. Questo - grosso modo e con tutte le importanti e fertili eccezioni che si possono lasciare all’intuito - il contesto nella poesia italiana (e di quello storico e culturale, della “condizione postmoderna”, dicono, esplicitamente, i testi di Fabrica).

3.      De Natura: la prima domanda interroga la naturalità del linguaggio e la posizione dello scriba. All’artificiale che si proclama autentico, Scribeide risponde con un artificio pienamente consapevole ed autoevidente. Se la lingua è agonizzante, e stordita di anestetici, Cepollaro attinge direttamente a lingue morte, soprattutto il volgare di Jacopone, per spargere sale sulle ferite - “per vedermi como attrezzo sta lingua como la confronto con la cosa / con la cosa laffuori como l’attrezzo sta lingua per soli per pochi” (Toulouse-Lautrec). Il “confronto con la cosa” riguarda la relazione, la funzione sociale che da questa relazione può ancora scaturire. Pur nel disincanto e nell’autoironia, non compiacendosene, Cepollaro si chiede che cosa può e deve fare un poeta nella società (dunque in un solco di pensiero diverso, o ulteriore, rispetto a quello che, da Lautréamont all’Internazionale Situazionista a Giorgio Cesarano, considerava l’assunzione positiva del ruolo già in se stessa complice dei poteri). La domanda era quella di sempre, ineludibile, e che Guido Guglielmi poneva senza infingimenti nella sua prefazione a Luna persciente: “Perché si scrivono poesie? Si può pensare che ci siano cose da dire che non possono essere dette se non in forma poetica [...] Ma può accadere – ed è accaduto storicamente – che le cose da dire – i cosiddetti contenuti – diventino estranei e remoti, che non resistano all’azione storica.” Negli anni di Scribeide, l’azione storica sembrava coincidere, nell’occidente della terza rivoluzione industriale, con un acceleratissimo e inesorabile convergere dei fatti nella loro rappresentazione agente. Sembrava. Questa apparenza, certo potentissima, non era irresistibile. La storia non stava finendo, non finì nel 1989. Altrove da un occidente inebetito dai traumi, e dagli entusiastici fervori, derivanti da un ipotetico trapasso all’esistenza virtuale, l’azione storica agiva, devastante. Non rappresentata sugli schermi televisivi, non per questo inesistente. Accogliendo come irreversibile una condizione di completa sudditanza rispetto al rappresentato, e potendone, per privilegio economico, godere come di una vacanza definitiva dalle responsabilità verso la storia (la vita), propria e altrui, si poteva accogliere la leggerezza come stile generale della letteratura (di “esaltazione della leggerezza” parlava Romano Luperini introducendo Scribeide). Lo “scriba de pesanza” subisce la condizione ma non l’accoglie. All’agonia delle funzioni conoscitive e critiche della poesia, e dei linguaggi in generale, risponde con un gesto, che in Fabrica diventerà pienamente consapevole, di autosoppressione. Attrezzare una lingua per pochi è negazione immante di funzione sociale. La contraddizione è palese e non rimossa. La lingua specialistica, esoterica, in Scribeide, non è nemmeno attivata in parodia. Non cerca scampo. Irride se stessa, con sprezzature e sarcasmi (“dritto inta fiumana e: aripànta   e: arirèi / ca te spinge e te spenge st’entermittenza”, da L’ovvietà dell’insonnia). Non si immette in nessuna forma preesistente né ancora si consegna, come sarà in Luna persciente, all’esclusiva scansione rigida, volutamente meccanica, del distico, che tuttavia in Scribeide compare spesso, e già come “attrezzo” per sostenere, con una forma chiusa elementare, l’enunciazione vocale: “mò ca a scire per vie t’ammicca lo muro storto / mentre t’espia de spalle te spia le stringhe ruvellato // e ncocci l’omini disiato de saver d’altrui penseri / dentro la coccia dentro er sacco de ciascuno resucchiato” (Lago d’assedio). In Fabrica, nell’epistola della corda del basso, è dichiarato l’intento fàtico di questa oralità: “per scrivere sta attento a che il ritmo se ne stia / sotto e buono che la rabbia stia tutta nella corda / del basso mentre la voce articola il suono e sia // il suono a chiamare a raccolta il senso: il logos / tuo e di altri si scoprirà alla fine nel martello / del dire: questa è la poesia che puoi fare e basta”.

4.      Le epistole di Fabrica si leggono, in effetti, come notazioni di poetica riguardanti l’intera trilogia: la crisi radicale dell’avanguardismo, poiché le “matrici nuove” “fioriscono oggi l’estetica del capitale” (epistola di rimbaud e marinetti), in un contesto che impedisce di credere nella bontà finalistica dello sviluppo, anche del capitale stesso, e dove il presente concreto vorrebbe emanciparsi dal divenire astratto: “non c’è un’idea precisa né un’utopia edificante: troppi / morti a ricominciare daccapo. è nel mezzo delle cose che si spera. / le cose sin dall’inizio e da sempre sono già tutte cominciate” (epistola dell’utopia). Ma “nel mezzo delle cose” c’è adesso il dominio incontrastato del ciclo produzione-consumo, e la sua rappresentazione attualizzante, che tende a fagocitare il tempo dell’esistere, il presente, in consumo della sua estetizzazione mediatica. Nel “grande imbroglio della forma / che impera” (Ballata postmediale, 5), “ora che l’attuale ha distrutto il presente”, “il poeta si sgancia” (epistola dell’attuale e del presente). Per via di negazione, nel “confronto con la cosa”, se l’estetizzazione si afferma affermando il primato della forma, perfetta nel sottrarsi ad ogni attrito con il suo contenuto di verità, lo scriba deve sganciarsi dai formalismi complici, dai “raffinati effettacci” (epistola del poetico consolidato) e dal “ludico / gioco di parole” (epistola dell’immanenza), e disporsi, costantemente, a de-formare: “cos’è che si macina coi versi non so” “il tuo verso ora è già perfetto // e chiude // ma appunto è questo che non va: aprilo e sopporta il caso dentro / al tuo casino e le cose che vengono e quelle che da prima ci sono / e ti fanno. allora la forma non è fatto di testa e il verso conta” (epistola del giovane poeta).

5.      Questa disposizione attraversa una fase prevalentemente fàtica, orale, in Luna persciente. Lo scriba non nutre più illusioni sulla possibile funzione conoscitiva e comunicativa - “no la poesia non dice il dolore del mondo quello se lo cucca / intero e muto chi ce l’ha” (epistola del dolore del mondo). Il “confronto con la cosa” sembra spostarsi verso il confronto con chi può condividere la percezione della lingua agonizzante, cercando una consapevolezza che accomuni. Dopo Jacopone, con palese sarcasmo, evocato a nume tutelare è Brunetto Latini. Viene tentata una didattica del negativo, la quasi sistematica esposizione di un “tesoretto” rabbiosamente inane: “il meditare e l’andare e i molti vuoti / ma i’ nun saccio che dire i’ nun saccio che fare” (Delle parole al paragone). L’invito è a porsi insieme, socialmente, la seconda domanda fondamentale della trilogia, ancora separando il soggetto enunciante dalla funzione oggettiva che la poesia dovrebbe avere: “o detto altrimenti di noi sentì una piccola parte / una morte piuttosto un dilagante specchio di morte” (Dell’ansia e dello Scriba). La didassi, ancor più se oralizzata, ha bisogno di un veicolo formale dove incanalarsi: una forma neutra, meccanica – i distici -, e non raffinata, affinché nessuna autotelìa o esibizione virtuosa possa impigliarvisi, nessun residuo estetizzante. Ma c’è ancora, in questo, la presunzione di un insegnamento positivo, di un sapere da trasmettere (un sapere che prescinde ed è scindibile dalla forma che lo veicola). Così, nel lungo componimento eponimo che chiude il secondo libro della trilogia, il docente si riconosce uguale al discente, autodenunciandosi e incitandosi a un gesto di ulteriore radicalità: “li omini non supportano troppa realtà / e manco io ca mento per star dentro / luna persciente / luna ditante // luna persciente / luna avvolgente // luna ca t’interiora / sanza dire una parola // ma tu dagli sotto sfronda / ma tu sfonda!”.

6.      Sfrondare, sfondare. E’ l’impeto che muove Fabrica: “non stranezze di lingua ora né acrobatiche combinazioni ma / un dire di cose facendo a meno del cuore e perciò volutamente / mostruose” (per mondi medialmente capovolti). Nel “confronto con la cosa”, la cosa ha vinto. L’attrezzo linguistico approntato in Scribeide e in Luna persciente viene dunque sfrondato, e scompaiono quasi completamente le connotazioni metacritiche innestate ibridando lingua morente e lingue morte. Si esaurisce, insieme, un residuo di fiducia nella espressività che poteva derivarne. Fuori dai giochi: “nella franchezza dello sterminio” “sotto l’unico comando di una seconda natura / ch’è mannaia”, “il poetico duplica il suo naufragio / per nulla poetico” (Ballata dei mondi). Rimane la denuncia, l’invettiva. Ma la denuncia rischia di regredire al compiacimento dell’invettiva come genere, che si alimenta di attualità pur non avendo nessuna incidenza sull’attuale, “in absentia dei lectori illiberi in illiberi mercati”. E si rasenta l’implosione, se la critica verte direttamente sui contenuti abolendo ogni critica delle forme, nell’artificio implicita e comunque implicata. In Fabrica è portato potenzialmente a compimento un percorso verso il silenzio, privilegiando l’agire con un estremo anelito d’utopia: “realistico è così quel moto a dire che s’apparta / dall’unico racconto e dal telecomando che il mondo // sotto modi di dire i suoi moti di fatto ha seppellito”, “facciamoli i moti / finché [...] mondi nuovi verranno a dire i nuovi / fatti” (Per moti di dire). Ma a sospingere non è la fiducia (la fede) in un imminente mutamento radicale, come accadeva vent’anni prima, quando si credeva che lo sviluppo dei mezzi di produzione fosse giunto a consentire di socializzare l’abbondanza - “l’abbondanza oggi affama” (Per moti di dire). Se nel “confronto con la cosa”, la cosa è l’economia mondiale con le sue conseguenze, basterà enunciare la mera datità (per mondi percentuali), e sarà vano, e ancor più vano metterla in versi, “nel mezzo di un telematico orrore di un’apparente variatio / del mondo che fa il vero variopinta glossa del comando”. La funzione sociale della poesia, se posta in relazione di antagonismo diretto con la comunicazione mediatica, si mostra sùbito velleitaria, o forse desiderosa di essere fagocitata, accolta come “variopinta glossa”, a margine del margine, pur di “star dentro”. Meglio il silenzio, allora, “ma consegnando comunque lo scontrino” (“sine equivoco noi diremo / sì, l’abbiam fatta l’intima nostra e pubblica consumazione”).

7.      Il silenzio è l’esito possibile di ciò che Guglielmi definiva “gesto ostile”, “provocazione”, “idioletto non dialettizzabile”. Ma in De Requie et Natura Guglielmi scorgeva anche “modi di fare precipitare le possibilità del linguaggio dall’orizzonte delle sue impossibilità. Come dei prolegomeni, in sostanza, per una poesia futura”. C’è un percorso parallelo e intrecciato, in tutta la trilogia; un controcanto alla voce autoriale che lamenta la “seconda perdita dell’aura”, oltre la funzione sociale programmatica, l’autoinvestitura in un ruolo docente, e oltre la sfida all’attuale mediatico dentro l’attuale stesso. E’ forse un residuo di ambizione al potere (o al contropotere) che genera una ammutolente sindrome da impotenza. Quando lo scriba distoglie lo sguardo dall’entità astratta del lettore o dell’uditore e rivolge le parole alla sua propria, concreta esistenza e a quella di chi gli è accanto, “contando sulla cena condivisa” (Ballata del contarci, Giga), in una relazione di eguaglianza che non può accogliere la distinzione, implicante auctoritas e potere, tra il dire e il dirsi, le poesie si liberano dalla soffocante attualità e ritrovano il presente, che è un tempo lunghissimo, e memore. In questo tempo le parole ridiventano necessarie, per tentare di conoscere e nominare ciò che soltanto in questo tempo può essere detto perché soltanto questo, il presente, è il tempo dell’esistere. Senza timore di ripetere ciò che “si dice da sempre”: nella ripetizione, non identica, si riaddensa la memoria e si reinterroga il passato; la non identità è quella, unica e irripetibile, di ogni presente. Alla presunzione di un completo e definitivo esaurimento della conoscenza risponde già, nel Contrasto di Scribeide, la voce di Donna: “ma tu non sabe tota la ferita / della vita presa alla sustanza”. E ancora, in Sintagma sperso: “(oh como dicevi isiosa lunga notte / como t’appaurava il vôto do matino / como sapevi vicina la zampa do mundo)”. O in Luna persciente, senza idioletto, (Clelia sulla soglia di casa): “però se ci penso alla pianta // dei piedi non poterli poggiare / né tirare veramente un respiro // e questo dopo tutto il tempo / che stempera in panna // cremoso che nulla veramente / scompiglia che non dà né gelo // né altro che non condensa / né svapora che trattiene”. Pur nella radicalità del suo itinerario, e a testimoniarne la non programmatica adesione a precetti di poetica, Cepollaro ha disseminato nella trilogia il “presente a venire”. In Scribeide, nella sezione Prossimità, si leggono “prolegomeni a una poesia futura”: “ – col tempo uno impara a vederci / chiaro: negli occhi / la chiarezza // la terra che trema e trascina / con sé un esercito di formiche –”, mentre “si sta su quel filo / nel possibile, vicino.” Un filo, di esistenza, mai completamente smarrito. Sono già versi nuovi.

 

Giuliano Mesa


[1] Raccolgo qui tutti i riferimenti bibliografici agli scritti di Cepollaro. Per le poesie: Le parole di Eliodora, Forum/Quinta Generazione, Forlì, 1984; Scribeide, Manni, Lecce, 1993; Luna persciente, Mancosu, Roma, 1993; Versi nuovi, Oedipus, Salerno, 2002. Per i concetti di estetizzaione, seconda perdita dell’aura, presente e attuale: Istanza realistica, sperimentazione ed estetizzazione della politica, in “Baldus”, V, 1, 1995, e Il presente a venire, in “Baldus”, VI, 4, 1996.

 

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